La marineria velica di lungo corso

Un’epopea dimenticata

 

Nessun marinaio, dopo il suo turno di guardia trascorso in massacrante lavoro, si butta a dormire tanto stanco da non togliersi i vestiti bagnati fradici per venir magari, poco dopo, richiamato in coperta per improvvise emergenze perden­do preziose ore di sonno; nessun marinaio, dopo pochi giorni di navigazione in alto mare, mangia solo carne salata e galletta infestata dai parassiti con il rischio dello scorbuto; nessuno beve acqua rigorosamente razionata e per di più andata a male; nessuno viene a trovarsi in posizione di rischiare la vita in alto su alberi oscillanti, pennoni scivolosi e vele gonfie di tempesta manovrandole proprio per salvarsi la vita; nessuno si presta ai faticosi lavori di carico e scarico propri delle compagnie portuali o agli impegnativi lavori di raddobbo da cantiere richiesti all’equipaggio per risparmiare le relative spese; nessuno passa mesi e mesi lontano da terra con intorno soltanto sconfinate distese di cielo e di mare troppo spesso imbronciate quando non burrascose; nessuno è pagato tanto poco per fare una vita tanto irta di pericoli, stenti e sacrifici. Non al giorno d’oggi.

Eppure qualcuno c’è stato in un passato non tanto lontano, anzi più d’uno. Erano i marinai di una volta, quelli dei velieri di lungo corso, del Capo Horn, una razza marina che si stenta a credere sia esistita ed abbia potuto resistere a situazio­ni del genere. Non per niente un antico detto recitava che gli uomini si dividevano in tre categorie: i vivi, i morti e coloro che andavano per mare. Una razza scontrosa e fedele, vigorosa e fiera — ha detto Joseph Conrad — capace di ogni rinuncia e dedizione, con i suoi riti, i suoi usi, il suo coraggio. Uomini che il mare lo conosce­vano per davvero perché vivevano ed operavano a contatto diretto con esso, con i suoi capricci, con le sue apparenti blandizie, con le sue violenze, con le brezze o con le bufere lungo gli inevitabili “Quaranta ruggenti” e i “Cinquanta urlanti” delle latitudini oceaniche australi che alzavano ondate montagnose e dirompenti che salivano in coperta sotto cieli percorsi da minacciose nubi plumbee scioglientisi in pioggia battente, grandine martellante e nevischio. Oppure nelle calme equatoriali piatte e senza un filo di vento, parimenti disperanti. Il tutto senza alcun presidio sanitario, senza possibilità di cure in caso di malattia, che in certe zone poteva essere il beri-beri o la febbre gialla (ma anche l’influenza “spagnola” del 1918), dovendo inoltre fare i conti con i topi, gli scarafaggi, le cimici e perfino con le zanzare. Ineluttabili i fattori tecnici e umani con un complesso di attività fortemente condizionate dall’ambiente e senza un momento di requie. Grande la fatica fisica, grande la sofferenza, grandi i pericoli. Navigazione condotta in alto mare con rara abilità sulla sola base di calcoli astronomici o stimati, senza possibilità di verifiche offerte dai punti salienti di terra, col solo aiuto del sestante, del prezioso cronome­tro, di una bussola di dubbia compensazione, del barometro e nulla più. Un’arte sorretta da esperienze incredibili, da intuizioni e da colpi di fortuna.

Non sarà mai abbastanza riconosciuto quanto merito, a beneficio del progres­so e della civiltà affermatasi tra la seconda metà del 1800 e i primi decenni del 1900, ha rivestito il servizio prestato dalla gente della marineria velica nei percorsi oceanici più lunghi e sperduti dall’Europa all’Australia, all’Oceania e alle coste occidentali delle Americhe, con l’obbligato passaggio del leggendario Capo Horn, o scapolando il Capo di Buona Speranza o i capi della Nuova Zelanda. Percorsi tanto lunghi che le navi a vapore, le quali avevano sottratto ai velieri i ricchi traffici misti viciniori, non potevano ancora affrontare per ragioni di autonomia e mancan­za di punti di carbonamento. Ma la marineria velica era giunta, dopo tanti secoli, ai suoi ultimi anni di attività cercando di adeguarsi ai nuovi tempi passando dalle costruzioni in legno a quelle in ferro che rendevano possibile l’aumento della portata di stiva, rinunciando infine al fattore velocità e conseguentemente diminuendo all’osso il numero dei marinai e degli ufficiali, pochi uomini impiegati perciò senza requie, con disciplina e impegno quanto mai incombenti, imposti talora con la forza, con le vie di fatto accettate comunque perché s’era sempre fatto così, come manifestazione incontrastabile e rituale. L’arrivo in porto dava luogo usualmente alla diserzione di molti marinai, o desiderosi ingenuamente di migliora­re la loro condizione, o allettati con generose bevute da sensali senza scrupoli che facevano i loro affari procurando uomini alle navi in partenza bisognose di uomini, quali che siano stati.

La vita di bordo seguiva rigorose regole integrate immancabilmente da tradi­zioni osservate spontaneamente con rigore secondo una gerarchia al vertice della quale stava il capitano, detto comunemente “il vecchio” (the old man) anche se uomo giovane, e mai chiamato comandante (termine, questo, divenuto proprio della marina a vapore), coadiuvato da un primo ufficiale (Chief o First Mate) con compiti di vicecomandante, e da un secondo e terzo ufficiale (per lo più capitani di lungo corso patentati ma non abilitati) con residenza sul casseretto di poppa. L’equipaggio era formato dal nostromo, figura centrica, dal cuoco, dal carpentiere (in epoca più antica anche dal bottaio) e dal velaio, mansione importante la sua in quanto non era difficile perdere le vele fatte a brandelli dalle raffiche degli uragani e quindi da sostituire con vele da lui confezionate, tutti col grado di sottufficiale con una propria cabina, esenti dai turni di guardia, e infine dai marinai: mozzi giovanissimi, giovinotti (giovani marinai non ancora riconosciuti), pilotini, marinai, nocchieri e gabbieri più o meno sperimentati ma affiatati come necessaria conse­guenza dei comuni pericoli affrontati e da affrontare, che stavano a proravia dell’albero maestro in un alloggio comune, divisi in due guardie alternate di quattro in quattro ore (con una guardia di due ore, alternante), dette destrale e sinistrale. Una categoria a parte era formata dagli allievi, immancabili sui velieri specialmente inglesi, destinati a divenire capitani patentati ma impegnati, a bordo, nei turni e nei servizi dei marinai secondo una scuola molto dura di pratica. Nei momenti di emergenza, che non erano rari, tutti erano chiamati alle manovre e salivano sulle alberature, altissime e oscillanti, anche i sottufficiali cuoco compreso e gli ufficiali. Molto apprezzato era allora il misurino di rhum distribuito alla gente al termine di una manovra impegnativa o eseguita sotto l’imperversare della burrasca, o altra avventura del genere. Qualche aiuto era subentrato negli ultimi anni grazie all’irrobustimento delle alberature e delle manovre fisse e correnti, ai cavi d’acciaio e catena, alla calderina ausiliaria a vapore ed alla manovra di orientamento dei pennoni per mezzo di particolari verricelli (la cui prima applicazione si doveva allo scozzese J.C.B. Jarvis ma non subito presa in considerazione da tutti gli armatori). Subentravano miglioramenti anche in fatto di viveri con la carne in scatola (non molto migliore, però, della carne salata in barile), stoccafisso, pane fresco la domenica, fagioli e piselli secchi e simili. Un po’ di carne fresca poteva essere procurato a volte grazie alla cattura di qualche focena o di qualche delfino e allora era una festa. Migliorava anche la situazione dell’acqua con l’introduzione di cisterne metalliche zincate, ma sempre razionata, per cui veniva continuata con cura la raccolta dell’acqua piovana. Fatto curioso era che a bordo non esisteva denaro circolante, che la moneta quale sia stata non aveva corso. C’era però la possibilità di fare qualche acquisto utile, ad esempio vestiario, sapone, scatole di marmellata da una specie di cooperativa interna sotto la diretta sorveglianza del capitano, che poteva concedere qualche giustificato anticipo sulle spettanze matu­rate da ciascun uomo, ufficiale, sottufficiale o marinaio, che venivano liquidate alla fine di ciascun viaggio. L’arruolamento degli equipaggi avveniva in linea di massima per viaggio o per campagna secondo regole ed usi nazionali, propri di ciascuna bandiera, per cui gli inglesi imbarcavano gente di ogni paese e di ogni lingua con la conseguenza che, a bordo, veniva a formarsi non di rado un singolare cosmopoliti­smo temporaneo; gli americani, dopo aver preparata la nave alla partenza, imbarca­vano l’equipaggio di bassa forza, gente di ogni risma, all’ultimo momento; i francesi si avvalevano il più possibile di certi ruoli nazionali di qualifica; i tedeschi imbarca­vano solo connazionali con l’obbligo di sbarcare a fine campagna soltanto nei porti tedeschi condannando le diserzioni; gli italiani preferivano i connazionali e gli stranieri imbarcati erano pochi.

Si giungeva così all’ultimo periodo di un’attività che il progresso stava rapidamente eliminando.

Le distese oceaniche aperte erano segnate da regimi di venti regolari perma­nenti o stagionali (alisei e monsoni) perché non deviati dalle formazioni geologiche continentali, però sconvolti spesso da tempeste e uragani di grande violenza, specialmente nelle basse latitudini australi, dominio dei citati “Quaranta ruggenti” e dei “Cinquanta urlanti”, con mare insidiato inoltre dai ghiacci vaganti. Bisognava tener conto, inoltre, delle correnti marine, delle zone di calma completa per cui le rotte seguite dai velieri non erano rettilinee, come sembrerebbe possibile osservan­do una carta geografica, e variavano anche secondo le stagioni in base alle esperien­ze di ciascun capitano. Ogni capitano faceva tesoro delle sue conoscenze ma s’era pensato di pubblicare anche delle carte informative, a cominciare da quelle stese nel 1850 dall’americano Maury via via perfezionate fino alle attuali “pilot chartes” annuali. Il punto cruciale era rappresentato dal passaggio del leggendario Capo Horn, sconvolto dalle tempeste quasi in continuità per cui quella zona di mare segnava il naufragio di numerose navi sfortunate tra quelle che erano obbligate a doppiarlo se volevano passare dall’Atlantico al Pacifico, col vento che in quella zona dominava di prua, tanto da trovarsi ricacciate indietro più volte con equipaggi stremati e bagnati per giorni e giorni dall’acqua gelida che rompeva da tutte le parti. Si cita ad esempio il caso del veliero inglese “British Isles”, capitano James Platt Barker, che risulta essere stato il più provato con manovre e rischi incredibili, avanti e indietro, con in più un focolaio d’incendio per autocombustione del carico di carbone, ma riuscendo testardamente a passare con perdita di uomini e vistosi danni all’alberatura, essendo incappato nel 1905 nella peggiore serie di burrasche che avesse mai flagellato la zona, danni gravi che egli riparava in proprio con grande perizia professionale.

L’attività riguardava quanto rimaneva dei trasporti di massa, guano cileno, salnitro peruviano, carbone europeo o australiano, grano americano, minerali di nickel neocaledonesi , lana australiana, petrolio in cassette, legname, pesce in scatola dell’Alaska. E, al tempo della corsa all’oro californiano, anche passeggeri della costa orientale in cerca di ventura, sempre via Capo Horn. Finché l’apertura del Canale di Panama (1914) provocava alla vela ulteriori perdite operative. Non era facile trovare carichi da trasportare nonostante i noli tirati al minimo, ed i velieri facevano talora parte del viaggio in zavorra pur di lavorare restando magari inoperosi per dei mesi in porti che imponevano turni di carico o per scioperi interminabili come lo sciopero dei minatori avvenuto in Australia nel 1906.

Gli affari stavano passando intanto ai piroscafi, sempre più affidabili ed economici, che, non dipendendo dai capricci del vento, assicuravano consegne più regolari secondo precisi impegni di noleggio. Concorrenti che i velieri non riusciro­no più a contrastare.

 

Tutto ciò ha alimentato una nutrita memorialistica, una letteratura di vita vissuta che ha oggi il sapore della saga, dell’epopea, con testimonianze fotografiche che confermano pagine che altrimenti sembrerebbero intessute di esagerazioni letterarie.

 

GLI EAST INDIAMEN

 

L’Inghilterra comunicava con il suo grande impero d’India esclusivamente per via marittima e perciò abbisognava non solo di navi ma di navi che fossero adatte al trasporto sia di uomini che di cose.

La potente Compagnia Inglese delle Indie Orientali dominava incontrastata con una sua flotta di velieri noti come East Indiamen molto simili alle navi da guerra del tempo, però con sistemazioni anche per passeggeri di classe. Navi comode grazie alla carena di forme piene, ma che avevano il difetto di essere lente, scarse di manovrabilità e di obbedienza al vento sicché i viaggi erano interminabili.

 

I CLIPPER

 

Mutavano i tempi dopo le guerre napoleoniche, che avevano visto in azione navi corsare capaci di sviluppare velocità imbattibili, mutavano anche le esigenze economiche ed operative del mondo occidentale.

Nasceva così, intorno al 1820, un nuovo tipo di veliero che tradizionalmente si pone nelle coste nordorientali degli Stati Uniti d’America, nazione giovane e dinami­ca ben diversa dal mondo conservatore e consuetudinario inglese. Trattavasi di una nave ancora piccola, a due alberi, detta BALTIMORE CLIPPER perché nata a Baltimora, caratterizzata da forme di scafo molto stellate e molta vela, agile, manovriera e sopra tutto veloce. Buona pertanto al contrabbando e al trasporto di schiavi, perfino pirata. Secondo fonti più credibili, il primo vero clipper , quanto­meno a farsi notare, sarebbe stato l’ “Ann Mac Kim” del 1832, stazzante 493 tonn., con carena rivestita di rame. Nel 1840 ed anni successivi si trovavano in esercizio non pochi velieri di questo tipo, più grandi, progettati da architetti assai reputati quali Donald Mac Kay, George Thomas e John Griffits. Basti citare il “Great Republic”, il “Dreadnought”, il “Lightning”. Sulla scia degli Americani si mettevano gli Inglesi, o meglio Scozzesi, col capostipite “Scottish Maid” seguito da molte unità eccellenti tanto da declassare quelle americane. Alla fine degli anni cinquanta John Jordan introduceva la costruzione degli scafi composita, con ordinate in metallo, irrobustendo e nello stesso alleggerendo una struttura nata alquanto debole. Col “Richard Cobden” veniva sperimentato nel 1844 il primo veliero di ferro. Il capitano inglese William Clinfton sperimentava anche la navigazione contro il monsone dando il via alle complessa attrezzatura velica propria dei velieri veloci, ricorrendo perfino all’aiuto dei rimorchiatori a vapore per lunghi tratti al fine di guadagnare cammino.

 

Prendeva piede, così, il tipo generico del CLIPPER (nome derivante, forse, dal cavallo da corsa degli stati americani sudisti) che, acquistando maggiore stazza tra il 1830 e il 1860, si divideva in più sottotipi sia americani che inglesi.

 

OPIUM CLIPPER

 

L’uso dell’oppio si diffondeva in Cina come coadiuvante alla fatica e alla povertà dell’alimentazione specie nei vasti territori malsani costieri. Ma il consumo individuale veniva ad aumentare sempre più con gravi avvelenamenti e con effetti sociali negativi tanto che il governo del Celeste Impero ne proibiva il consumo, incrementato egoisticamente con alti guadagni da commercianti americani, inglesi e francesi, senza riuscire tuttavia nell’intento. Si arrivava così ad atti di forza ed alle due guerre dette “dell’oppio” (1842 e 1857) combattute dall’Inghilterra e dalla Francia a seguito delle quali la Cina, sia pure ottenendo la proibizione formale dell’oppio, doveva aprire al commercio estero cinque porti, tra i quali Hong Kong e Canton. Si veniva a formare un’estesa rete di contrabbando servita da velieri molto veloci le cui prestazioni venivano ad influire sull’armamento velico commerciale avendo attirato l’attenzione dei costruttori e degli armatori più impegnati. Il fatto segnava l’inizio di un’evoluzione senza precedenti e il fattore velocità acquistava sempre maggior importanza, tanto che veniva costruito almeno un centinaio di velieri rispondenti al requisito, condotti spregiudicatamente in acque pericolose alla navigazione con la conseguenza che ne andò perduto almeno un terzo.

Finiva per imporsi anche in queste acque la navigazione a vapore, più sicura e controllabile, la lucrosa attività di contrabbando cessava ma il clipper restava.

 

IL TEA CLIPPER E IL “CUTTY SARK”

 

L’uso del tè ha avuto, in Cina, grande diffusione fin dai tempi più antichi estendendosi dalle rive del Mar Giallo in tutto l’impero con un infuso che intendeva correggere la fangosa e malsana acqua dei fiumi. Se ne sentiva a parlare in Europa già nel 1500 come panacea, ma è nel 1600 che arrivano quantità ragguardevoli da Macao per opera degli Olandesi. Con la fine della guerra dell’oppio del 1842 comin­ciavano le regolari esportazioni in Occidente, ed erano gli Americani a portare inizialmente il tè in Inghilterra facendosi attivissimi sulla piazza di Londra. La Casa inglese Black Ball Line si dimostrava presto interessata e due ditte specializzate cominciarono ad ordinare velieri veloci ai cantieri di Aberdeen, con pieno successo. Veniva superata una vecchia legge fiscale (la “tonnage law”) causa di certe arretra­tezze costruttive e gli Americani perdevano presto la prevalenza. I loro velieri, infatti, costruiti con legname meno resistente dei velieri inglesi non potevano sopportare eccessive forzature veliche imposte dalle traversate veloci. Dal 1853 al 1870 i cantieri di Aberdeen, Geenock, Glasgow, Guernesey, Liverpool, Londra e Sunderland vararono circa cento clipper i cui nomi sono entrati nella storia della marineria inglese.  

 

 Il “Cutty Sark” è il celebre veliero veloce (dal curioso nome che significa “corta camicciola” tratto dai versi di un poeta scozzese) sinonimo del clipper, attualmente conservato a secco nel bacino di Greenwich, realizzato dalla Cutty Sark Preservation Society nel 1959 dopo un accurato ripristino, conosciuto generalmente anche grazie alla reclamizzazione di molti prodotti industriali moderni.

Costruito con la massima cura su progetto dell’architetto Hercules Linton e varato nella Clyde nel 1869 per conto del facoltoso armatore scozzese John Willis (conservatore ad oltranza in fatto di marineria velica, detto Withe Hat per il cappel­lo bianco che usava portare), il quale lo tenne fino al 1895 quando lo vendeva ad armatori portoghesi, che lo impiegavano fino al 1922 col nome di “Ferreira”. Tornava sotto bandiera inglese per venire ripristinato come cimelio di un tipo straordinario di veliero, degno di ogni considerazione, impiegato in traffici specia­lizzati, testimone autorevole di tutta un’epoca. con periodo di maggior splendore che è andato dal 1845 al 1875.

Un veliero non grande, stazzante meno di 1000 tonn., lungo poco più di 85 metri fuori tutto, ma con scafo stellato perfetto nel suo genere, seppur difficile da comandare e da condurre, fatto per gente scelta, come del resto ogni clipper che richiedeva giorno e notte, senza posa, continue manovre nell’orientamento delle vele per non perdere un solo nodo (velocità). Particolari doti erano richieste anche al capitano, che doveva curare con forza di carattere non solo la condotta e l’assetto della nave ma anche gli interessi commerciali ed economici dell’armatore resi sempre più difficili sicché di buoni capitani di clipper se ne trovavano assai pochi. Egli doveva, in poche parole, saper fare di tutto conoscendo ogni furberia di mestie­re non solo in campo nautico.

Il vecchio Willis aveva voluto dal costruttore quanto di meglio poteva essere impiegato per imporre la sua bandiera d’armamento sul mare della Cina. Nella Londra vittoriana s’era venuto a determinare un fatto di costume con il consumo del tè. L’annuale arrivo del primo carico del tè cinese di nuovo raccolto primaverile, considerato il migliore (una pianta dava tre raccolti), veniva pagato bene con un premio di 10 scellini ogni 50 piedi cubici e 100 sterline al capitano della nave vincente. Si era arrivati, infatti, ad una vera e propria “regata del tè” con molti concorrenti, in primo luogo il “Cutty Sark” che, ironia della sorte, non riusciva ad imporsi sul diretto concorrente “Thermopylae” malgrado ogni impegno, senza scuotere però la fiducia di Willis. La gara era seguita, a terra e in mare, con interes­se e si arrivava al caso dell’“Ariel” e del “Taeping” che nel 1865, partiti da Fuchou il 30 maggio, giungevano a Londra il 5 settembre successivo distanziati di 10 minuti. Ma la concorrenza del vapore stava diventando fatale, i noli scadevano fino alla metà e inutilmente si coltivò la diceria che il tè trasportato (più vantaggiosamente) dai piroscafi sapeva di fumo e di catrame. Superando il periodo degli alti e bassi (ci fu anche un omicidio e il suicidio di un capitano) il “Cutty Sark” doveva ripiegare sul tè indiano per l’Australia e, peggio che peggio, su carichi impropri per la sua particolare forma di carena come il carbone, riscattandosi però finalmente sotto la guida di un capitano di eccezione, Richard Woodget, con i vantaggiosi carichi della lana australiana via Capo Horn e con traversate assai veloci sul mercato di Londra caratterizzato da aste che si tenevano solo in certi periodi, a costo di perdere magari le vele e perfino qualche albero, come effettivamente avvenuto. Nel 1922 veniva comperato da un capitano proveniente dalla vela che l’aveva riconosciuto, la vedova del quale lo donava poi, nel 1938, al Thames Nautical Training College finché, nel 1952, lo rilevava la sopraccennata Preservation Society.

 

WESTERN OCEAN PACKET

 

Il Capo Horn era stato individuato dal capitano olandese Lemaire nel 1615 ma rimaneva poco frequentato a causa delle continue tempeste che lo battevano e dei conseguenti pericoli con l’esito di numerosi naufragi. Nel 1848 venivano scoperti i ricchi giacimenti auriferi della California, il che favoriva un nutrito movimento migratorio, senza precedenti, di gente che partiva dalle coste orientali degli Stati Uniti via Capo Horn verso l’immaginato eldorado californiano dando molto lavoro agli agenti marittimi che pubblicavano manifesti reclamizzanti questo o quel veliero. Ne approfittavano gli armatori americani  attrezzandosi per il trasporto dei passeggeri in cerca di ventura, mettendo in linea navi di buona capacità e ricettività, che si videro navigare tra il 1850 e il 1870. Esiste una ricca documentazione iconografica di questi velieri in centinaia di quadri ad olio ed acquerelli raccolti dal Peabody Museum di Salem (non pochi dei quali recano la firma di artisti italiani, forse emigrati).

Cessata per esaurimento la “corsa dell’oro”, s’imponeva il trasporto del grano, che la California produceva in grandissime quantità e di una qualità che si prestava al viaggio marittimo per le coste dell’Est americano e per l’Europa, impiegando velieri di grande tonnellaggio ed alta velocità come il “Great Republic” o il “Sovereign of the Sea”. Comparivano splendide unità, e si faceva notare il costruttore Donald Mackays con realizzazioni di prestigio. Tra il 1870 e il 1890 le costruzioni americane surclassavano quelle inglesi, ma l’Inghilterra era orientata ormai verso le costruzioni in acciaio più longeve, più stagne, di conduzione più economi­ca e con meno spese di manutenzione. Dopo la prima guerra mondiale, i superstiti venivano impiegati nel trasporto del legname da Puget-Sund all’Oregon, e dello zucchero da Honolulu.

 

Le caratteristiche ambientali e marine delle coste nord-orientali dell’America bagnate dalla corrente fredda del Labrador avevano favorito una estesa attività peschereccia con naviglio d’altura rispondente a queste caratteristiche. Naviglio molto invelato, diviso tra gli “schooner salt bankers” che provvedevano a salare il pescato sul momento ed i “clippers schooners” detti anche “Gloucester”, velieri molto veloci che portavano il pescato a terra, agli stabilimenti ittico-conservieri. Tutti degni di menzione anche perché davano origine a quelle grandi imbarcazioni sportive progettate per la corsa ed armate dai più noti magnati americani, lunghe una trentina di metri ed equipaggiate con un numero d’uomini superiore a quanti si potevano trovare a bordo di un veliero mercantile molto più grande. Sono nate così la prestigiosa “Classe J” e la Coppa America in lizza ancor oggi.

 

La potente Alaska Packing Company si assicurava il monopolio del salmone che veniva pescato in grandi quantità nelle fredde acque del Nord-Ovest, inscatolan­dolo per un esteso mercato di consumo. Nel 1909 diverse compagnie si univano nell’Associazione dei Conservieri dell’Alaska acquisendo buona parte dei vecchi velieri non più impiegabili in lunghe navigazioni, che venivano radunati annualmen­te nella cala d’Oakland, dove venivano preparati per la campagna primaverile imbarcando per quattro mesi gente raccogliticcia di ogni risma e poco pagata, sbarcata e impiegata nella pesca, con molte perdite di mezzi e di uomini causate dall’ambiente impervio e climaticamente difficile, ma con continui rimpiazzi finché nel 1939 fu giocoforza ricorrere ai vapori.

 

COLONIAL CLIPPER
detto anche WOOL CLIPPER

 

Il famigerato Capo Horn in uno dei rari momenti di calmaVeliero di concezione scozzese della Clyde, impiegato nel trasporto degli emigranti in Australia, paese in via di sviluppo dopo la scoperta, nel 1849, dei giacimenti auriferi alluvionali di Ballarat (Victoria) che innescavano un’economia favorita anche da un’agricoltura intensiva cerealicola, dall’allevamento del bestiame bovino e ovino con grande produzione di lana, insieme ad una potente industria e ricche miniere di carbone simile a quello inglese di Newcastle. Ragione di una consistente corrente immigratoria culminata nel 1875. Gli armatori inglesi veniva­no invogliati a costruire o acquistare velieri adatti, reclamizzati come “corrieri d’Australia”, in sostituzione dei primi velieri inadeguati e lenti tanto che il viaggio, via Capo Horn, durava dai 4 ai 5 mesi in condizioni inimmaginabili. Il primo “corriere”, il “Marco Polo”, partito con 930 passeggeri, batteva in velocità lo stesso piroscafo concorrente, l’“Australie”. Unità notevoli, con 3 o 4 classi, dalla cabina singola all’interponte, con servizio viveri notevolmente variato (si incontravano difficoltà solo per il pane) e scorta viveri in conserva per 6 mesi. Esaurito l’oro, restavano e anzi aumentavano i traffici marittimi con particolare riguardo all’esportazione del carbone di Newcastle A e della lana grezza, che abbisognavano di stivatori specializzati. I piroscafi non erano ancora in grado di competere con i velieri date le grandi distanze e le difficoltà di carbonamento, sicché le navi a vela crescevano di numero e di portata (2000 - 3000 tonn.) ricorrendosi per talune anche all’allungamento dello scafo. Si trasformava in veliero perfino qualche piroscafo.

 

A partire dal 1876 prendeva piede anche il trasporto del petrolio illuminante americano, “in cassette” (vale a dire in contenitori di latta sistemati a due a due in una cassetta), verso l’Estremo Oriente dove nel contempo veniva collocata, a milioni, una pratica lucerna brevettata. Non esistevano ancora le petroliere, anche se la prima delle quali concepita e progettata come tale, la tedesca “Glűckauf”, era comparsa da una decina d’anni, ma era una nave piccola e una novità che stentava a far testo. 

NOVA SCOTIA

 

Compariva nel 1880 un tipo di concezione americana, che usciva dai cantieri del Newbrunswick e del New England grazie al legname degli estesi boschi reperi­bile in quelle zone e al basso livello retributivo della manodopera che alternava il lavoro di cantiere con quello agricolo-boschivo.

Veniva impiegato prevalentemente nel trasporto del guano cileno e del nitrato peruviano via Capo Horn. Una trentina di questi velieri compariva, di seconda mano, anche sotto bandiera italiana.

 

GOLETTA AMERICANA

 

L’imporsi della navigazione a vapore e le crescenti difficoltà d’impiego operati­vo ed economico della navigazione a vela, finivano per provocare l’abbandono di gran parte dei velieri, che rimanevano inutilizzati e relegati in zone e canali fuori mano punteggiando fittamente il cielo con le loro alberature e pennoni a secco. Da tempo gli ufficiali e i marinai più valenti avevano capito che il vento non rendeva più passando dall’altra parte, a quella un tempo disprezzata della navigazione a vapore, ironicamente definita dagli armatori del “vento pagato”. Veniva a cessare anche la leggendaria linea del guano surclassato dai fertilizzanti chimici lasciando ancora in attività, per qualche tempo, tre velieri con bandiera cilena. Da ricordare tuttavia il trealberi “Tusitala” del 1883, armato a vele quadre, a nave, il cui ultimo utilizzo veniva procrastinato fino al 1932.

Un estremo tentativo di mantenere il traffico a vela veniva fatto dalla marine­ria del Maine con il ricorso all’attrezzatura a randa, proprio delle golette, richiedente pochissimi uomini e distribuita su più alberi, da servire al cabotaggio perché poco adatta alla navigazione d’altura, specialmente nella zona meridionale delle tempeste. Di questo ultimo tipo comparso nel 1880, molto insellato, si sono contate 460 unità a 4 alberi, 56 a 5 alberi, 8 a 6 ed una, vera eccezione, a 7 alberi.

 

CARRIER

 

Veliero di concezione inglese, adottato anche dalla marineria francese, tedesca e italiana, con scafo in ferro di grande capacità di carico grazie ad una carena di forma appiattita, non essendo più richiesto il fattore velocità. Era munito al centro nave di un cassero sul quale, togliendolo dalla pericolosa stazione dell’estrema poppa, era stato trasferito il timone, unito al casseretto di poppa e al castello di prua per mezzo di un leggero ponte volante, che consentiva lo sposta­mento degli uomini al riparo delle ondate che frangevano in coperta. Impressionan­te restava la selva delle manovre fisse e volanti e il gran numero dei bozzelli che battendo sugli alberi e sui pennoni metallici producevano un gran clangore. Attivo tra il 1890 e l’ultimo periodo velico, macchina complicata ma perfetta, il carrier ha rappresentato il tipo non più suscettibile di evoluzione con cessione finale del passo alla navigazione meccanica.

Caratteristici i grandi quattro alberi con alberatura meno alta e vele più equilibrate e manovrabili, tanto da consentire una diminuzione dei marinai, ma più lenti e difficili a far virare di bordo, causa questa di molte delle perdite subite. Il fattore velocità, essenziale come si è visto all’epoca della guerra dell’oppio e della gara del the, aveva perduto il suo valore e i ritardi erano talora volontari perché, per certi articoli, quanto più la merce stava a bordo, tanto più diminuivano le spese di magazzinaggio a terra.

Curioso il fatto che questi velieri inglesi venivano ironicamente soprannomina­ti “lime juicers” per il fatto che, in base ad una disposizione di legge, doveva venir somministrato giornalmente agli equipaggi del succo di limone quale presidio antiscorbutico (in realtà non efficace).

 

La prima guerra mondiale 1914-18 segnava inevitabilmente la fine a breve termine, preannunciata da tempo, della plurisecolare attività velica, che arrivava all’ultimo suo atto con manifestazione di altissimo impegno e maestria professiona­le, non più eguagliata. Rimanevano ancora un armatore (Erikson) e singoli velieri adibiti a navi scuola con limitato impiego commerciale, non rinunciandosi ancora a quella forma di educazione che ancor oggi è riconosciuta alla vela.

 

Curioso ed unico il fatto del veliero “Seeadler” battente bandiera tedesca che, al comando del conte Felix von Luckner, ha operato come nave corsara nell’Atlantico e nel Pacifico, in alto mare. Merita citarne la singolare e avventurosa attività. Il trealberi americano “Pass of Bahama” era diretto ad Arcangelo con un carico di cotone ma, fermato da un incrociatore inglese, veniva dirottato su Kirwall con alcuni inglesi di guardia. Fermato poco dopo da un sommergibile tedesco, il carico di cotone veniva dichiarato buona preda e il veliero condotto a Cuxhaven. Si decideva a Berlino di impiegarlo come nave corsara in considerazione del fatto che la navigazione a vela non comportava problemi di autonomia. Rimorchiato a Grestemuende, nel cantiere di Tecklenbord, subiva accuratissimi lavori di adatta­mento con armamento camuffato facendo circolare la voce che lo si voleva impiega­re come nave scuola col nome di “Seeadler”, per cui veniva munito plausibilmente anche di un motore da 1000 HP. Gli spaziosi locali per gli allievi erano destinati, in realtà, agli equipaggi delle navi affondate fatti prigionieri. Un ingombrante carico di legname veniva sistemato in coperta per rendere difficoltose le possibili visite al passaggio del blocco continentale inglese. A tal fine si preparavano anche carte di bordo false riguardanti il veliero norvegese “Maletta” che si venne a sapere fermo per lavori a Copenhagen e diretto a Melbourne. Venne imbarcato un equipaggio scelto di 64 uomini tra i quali molti parlavano il norvegese sennonché quel nome, ad un certo momento, non andava più bene dovendosi sceglierne un altro, l’”Irma”. Il 21 dicembre 1914 segnò la partenza e grazie anche ad una violenta tempesta, la singolare nave corsara ebbe modo di passare la linea di blocco dopo aver subito una visita inglese a bordo. Entrava in Atlantico girando molto al nord, scendeva al sud fino al passaggio del Capo Horn, che doppiava con grande difficoltà mettendoci tre settimane e mezza, ed entrava finalmente in Pacifico. L’attività bellica del corsaro fruttava l’affondamento di tre piroscafi e di otto grandi velieri, più un veliero catturato e lasciato libero con 263 prigionieri che non si potevano tenere. Si faceva sentire il problema della fine dei viveri e dell’acqua per cui il “Seeadler” doveva poggiare sull’isola di Mopalia (arcipelago della Società) dove fu possibile un’attività di caccia e pesca. Ma qui succedeva l’imprevedibile. Un terremoto sottomarino provocava una grande onda anomala che investiva il veliero con violenza tale da alzarlo e spingerlo sulle rocce coralline che provocavano uno squarcio nella carena e l’abbattimento dell’alberatura. Era accaduto che il motore, con i suoi 1000 HP inutili, non s’era messo tempestivamente in moto per salvare l’unità. Dalla quale fu sbarcato tutto quanto poteva essere salvato, radio compresa. Bisognava cercare di uscire in qualche modo da quella situazione e il comandante von Luckner munì il motoscafo di bordo con una vela prendendo il mare con 6 uomini armati al fine di catturare qualche naviglio adatto per il salvataggio comune. Battezzava il piccolissimo “motoveliero corsaro” “Kronprissezin Cőcilie” con il quale percorreva 2.300 miglia. Non trovava quanto cercava, ma cadeva nelle maglie dei pattugliatori neozelandesi finendo prigioniero. Riusciva però, nel dicembre del 1917, ad evadere avventurosamente con un altro motoscafo, un po’ più grande e munito anch’esso di vela, procurandosi questa volta i viveri da un deposito di emergenza per naufraghi tenuto sull’isola Curtis dal governo neozelandese. Questa volta era possibile impadronirsi di uno schoner, il “Moa”, col quale però i Tedeschi non andarono lontano perché catturati dall’incrociatore ausiliario “Iris”, vecchio posacavi. Rientravano in Germania nel luglio del 1919.

 

I VELIERI ITALIANI

 

I grandi velieri oceanici italiani, di ferro, a quattro alberi, non sono stati molti, circa una decina, però splendide unità che hanno fatto un buon servizio, sette dei quali di progettazione e costruzione nazionale, precisamente ligure. I trealberi, invece, sono stati numerosi.

Meta, Piano di Sorrento e Sant’Agnello sono stati i centri maggiori d’armamento dell’Italia Meridionale con le Case Ciampa, Lauro, Trapani, Cafiero, Argarita, Mastellone, Pollio, Esposito che hanno armato oltre 60 velieri, la metà dei quali impiegati nel Pacifico non riuscendo a reggere però alla crisi della prima guerra mondiale.

Procida e Gaeta hanno messo in mare, con le Case D’Abundo e Scotto La­chianca, una decina di velieri ma è con le liguri Nervi e Quinto con i loro 25 velieri moderni, con Genova Recco e Varazze, con le Case Milesi e Cerruti che il numero sale. Camogli armava numerosi velieri in legno e da ultimo oltre 60 in ferro con le Case Schiaffino, Olivari, Repetto.

 

“Fratelli Beverino”

Varato nel 1882 col nome di “Glenorchy” dalla Glen Line di Glasgow, passava alla Casa Beverino che nel 1909 lo vendeva a Gioacchino Lauro passando in Pacifico col nome “Cavaliere Lauro”. Passato infine col nome “Italia” all’armatore Esposito di Meta, di ritorno dal Cile con un carico di nitrato veniva investito da un piroscafo e affondava in pochi minuti.

 

 “Emanuele Accame”

È la nave a palo più famosa e longeva di Loano, attiva su tutti gli Oceani. Varata a La Spezia nel 1891, gemella della “Edilio Raggio”, saliva a fama internazio­nale nella gara del grano sotto bandiera svedese col nome di “G.B.Pedersen”. Due drammatici passaggi di Capo Horn richiamarono il suo nome su tutta la stampa internazionale, quando, alla cappa durante una tempesta, venne salvata dalla collisione di un veliero inglese dall’allarme dato dalla bambina del capitano inglese, che stava a bordo con lui. Nel 1908 veniva a trovarsi a navigare tra i campi di ghiaccio che stavano chiudendosi riuscendo a guadagnare il mare libero all’ultimo momento. Dopo il 1911 veniva venduta alla Norvegia, poi alla Svezia distinguendosi in fatto di rendimento veloce. Nell’aprile del 1937, il grande veliero veniva spero­nato da un piroscafo ed affondava in 20 minuti ponendo così fine a 46 anni di navigazione.

 

“Augustella”

Costruito a Glasgow nel 1892 col nome di “Jordanhill”, veniva acquistato dalla Società Stella d’Italia, venduto presto in Spagna, dove, dopo molti anni di navigazione, finiva alla demolizione nel 1937.

 

Balmoral

Varato nel 1892 per la bandiera britannica, passava nel 1911 all’Italia acquisito dai Milesi ponendosi tra i più grandi e meglio attrezzati velieri nazionali. Tornava in Italia con un carico di nitrato dopo una lunga campagna in Pacifico, riprendeva la navigazione per Baltimora quando, a guerra inoltrata, sorpreso da un sommergibile germanico in un momento di calma piatta, veniva affondato a canno­nate, e la Casa Milesi cessava l’attività.

 

“Edilio Raggio”

Varato a La Spezia nel 1903 dal cantiere Pertusola, era la prima nave a palo realizzata in Italia, cambiando poi il nome in “Enrichetta” con il quale compiva notevoli traversate oceaniche. Nel 1914, in arrivo nelle acque di Dieppe, incontrava tempo tanto cattivo da chiedere assistenza ad un rimorchiatore che gli passa il cavo di rimorchio, che però si rompeva lasciando il veliero che scarrocciando andava ad investire la diga foranea con perdita totale.

 

Principessa Mafalda

Varato nel 1903 dal Cantiere della Foce di Genova per la Casa Beverino, si poneva come veliero di buon cammino sia in Atlantico che nel Pacifico ma con scarsa fortuna. Infatti, nel settembre del 1906 subiva una serie di gravi tempeste al largo dell’isola di Sumatra perdendo un ufficiale e alcuni marinai e imbarcando tanta acqua da affondare. I superstiti riuscivano a raggiungere le coste di Sumatra dopo settimane di navigazione travagliata con le scialuppe di salvataggio.

 

“Gabriele D’Ali’”

Fu un’ottima unità della Casa D’Ali’ di Trapani, il veliero più grande tra gli armatori meridionali, varato nel 1903. Passato indenne tra i pericoli della guerra, veniva demolito a Trieste nel 1923, ultima nave a palo della flotta velica commercia­le italiana.

 

Erasmo

Varato a Riva Trigoso nel 1903 per conto degli armatori Raffo e Bacigalupo di Chiavari, fu unità veloce collezionando primati malgrado le molte tempeste nelle quali ha avuto la ventura d’incappare, in Atlantico e nel Pacifico. Venduto alla Casa tedesca Laeisz, navigava col nome di “Pinguin” e veniva demolito nel 1923 dopo aver alzato anche la bandiera francese.

 

“Regina Elena”

Armato da Casa Milesi di Genova, veniva varato a Riva Trigoso nel 1903. Allestito con cura sotto la sorveglianza di capitani esperti, condotto in campagne effettuate con passaggi veloci e con carichi di vario genere non escluso il nitrato peruviano e il petrolio in cassette, nel 1912 veniva ceduto alla Casa Laeisz col nome di “Ponape”. Catturato dagli inglesi durante la prima guerra mondiale, navigava col nome “Bellhouse” passando poi sotto bandiera norvegese fino al 1927.

 

“Italia”

Con la sua portata di 4.200 tonn., è stato il più grande veliero costruito dai cantieri nazionali. Varato al Muggiano nel 1903 per conto degli armatori Cavalieri Becchi e Sturlese di Genova, attrezzato a nave a palo con i ritrovati più recenti, con 18 vele quadre, randa e 12 vele triangolari, albero maestro di 50 m. , era una nave splendida alla quale, però, non ha arriso la fortuna, che gli ha decretato la breve vita di 3 anni. Due le campagne, la prima di circumnavigazione del globo; la secon­da campagna tra Europa, Australia e nuovamente Europa via Capo Horn. Durante la terza campagna, 1908, diretto allo scalo cileno di Iquique, l’“Italia” arrivava verso sera sotto costa quando veniva a mancare completamente il vento lasciando le vele inerti sicché bisognava ricorrere all’assistenza di uno dei pochi rimorchiatori della zona, che non fu possibile trovare (o giungeva troppo tardi). Il mare lungo che arrivava da Sud Ovest, dagli sconfinati spazi oceanici aperti, complice la corrente, spinsero il veliero sulle rocce della costa che scendeva a picco decretandone la fine per naufragio. Sinistro successo anche ad altre navi perché, essendo il mare molto profondo, era molto difficoltoso fermare la deriva per mezzo delle ancore. L’”Italia” riusciva tuttavia ad effettuare la manovra richiesta ma troppo tardi perché la poppa, ruotando, arrivò con il timone proprio sulle rocce che aprirono una via d’acqua fatale. Non rimaneva all’equipaggio che allontanarsi con le lance di salva­taggio, che venivano soccorse da alcuni pescherecci.

 

La navigazione a vela oceanica italiana si chiudeva con il quattroalberi “Patria”, l’ex tedesco “Susanne Vinnen” (Brema, 1922), entrato in servizio nel 1932 come nave scuola per l’addestramento degli aspiranti al comando di navi mercan­tili, con istruttori messi a disposizione dalla R.Marina, essendo armatrice la S.A. Nazario Sauro di Roma sostenuta da un consorzio formato dall’Ente Porto di Genova, dalla Federazione Trasporti e dalla Federazione degli Armatori, con l’appoggio del Ministero delle Comunicazioni. Questo impiego cessava nel 1938 dopo 8 campagne con l’imbarco complessivo di 180 allievi, quando il veliero passava in proprietà fino al 1939 all’armatore triestino Antonio Rocco che lo impiegava in Atlantico col nome “Imperatore” , con alberi abbassati e velatura ridotta come vedesi in un disegno di Paolo Klodic. Continuava a navigare con carichi vari anche durante la guerra subendo attacchi da parte dei Tedeschi, requisito dagli Inglesi, restituito infine, nel 1944, alla bandiera italiana. Risulta che l’ultimo suo impiego commerciale a vela fu fatto a Piombino nel febbraio del 1946. Nave di scarse qualità manovriere e veliere, veniva trasformato nel 1946-47, a Livorno, in motonave da carico col nome di “Ernesto S”, mutato poi in “Piombi­no”. Nel 1973 veniva visto a Vado Ligure in attesa della demolizione.

Un cenno anche al trealberi “Giorgio Cini”, nave scuola della Fondazione Cini, con base all’Isola di San Giorgio di Venezia, adibito a crociere d’istruzione per gli alunni degli istituti nautici. Uscito nel 1896 dagli Ances Cantiers Dubignaon di Nantes col nome “Belem”, cambiò proprietà e nome più di una volta, anche riclassificato in yacht, con bandiera francese, inglese e italiana quando, nel 1951, veniva comperato dal conte Cini sottoposto, due volte, a lavori di riclassificazione con cambiamento dell’attrezzatura velica. Nell’estate del 1980, dopo un periodo di sosta, tornava alla bandiera francese per essere ripristinato a cura di una società di shiplover riprendendo il nome di “Belem” con base a Nantes dove tutt’ora si trova

 

AUSTRIA UNGHERIA

 

Non sarà fuori luogo ricordare qui anche la Società Anonima Nave Scuola di Trieste, sorta nel 1913 per iniziativa degli armatori Cosulich, che, con l’appoggio degli altri armatori giuliani, acquistava un quattroalberi norvegese in disarmo a Genova impiegandolo col nome di “Beethoven” in attività mista commerciale e di istruzione degli allievi degli istituti nautici. Unità sfortunata che non superava neanche la prima campagna scomparendo corpo e beni, nella primavera del 1914, nei tempestosi mari del Sud senza lasciare traccia, con tutto l’equipaggio di 37 uomini tra i quali 19 cadetti e uno degli ufficiali appartenente alla famiglia Cosulich.

Non è stato questo il solo lutto lamentato nei mari del Sud dalla marineria velica battente bandiera austriaca. Tra il luglio e l’agosto del 1890, in zavorra dalla Plata verso Valparaiso, si perdeva nelle acque del Capo Horn senza lasciare traccia, nel corso di una violentissima burrasca , il veliero a quattro alberi “St. Margaret” (che troviamo citato anche nell’italianizzazione “Santa Margareta”), costruito a Liverpool nel 1877 e registrato a Fiume, di proprietà del capitano Giovanni Orth, che ne aveva assunto anche il comando. L’Orth altri non era che l’arciduca di Casa d’Asburgo, ramo di Toscana, che aveva rinunciato al rango e alle prerogative dinastiche e militari dandosi alla carriera marittima mercantile velica, scomparen­do in mare.

Batteva la stessa bandiera anche il veliero a quattro alberi, tutti a vele quadre, “Francesco Giuseppe I°”, ex britannico “Falls of Afton”, che può essere considerato l’unità più grande della flotta veliera di quella marina.

 

ARMAMENTI ESTERI

 

La vela scandinava, inizialmente molto forte, formata tutta da velieri ex inglesi, entrava in crisi con la guerra del 1914, ma tuttavia, nel 1918, contava ancora 126 velieri norvegesi, 13 danesi, 7 svedesi, 21 finlandesi.

Figura di primo piano era l’armatore finlandese Gustav Erikson, un innamo­rato della vela fino all’ultimo suo respiro. Prendeva imbarco in giovanissima età come cuciniere, a 17 anni era già promosso marinaio, percorreva la carriera professionale fino alla patente di comandante abilitato al lungo corso navigando per più anni. Acquistava durante la prima guerra mondiale il suo primo veliero, una vecchia unità russa, facendosi intraprendente armatore favorito dagli alti noli di quel periodo. Acquistava via via altri velieri, la crisi del 1921 non lo scoraggiava e nel 1924 si impegnava nel trasporto del grano australiano in una nuova ma ultima gara con 3 svedesi e 3 tedeschi sollevando un notevole interesse di stampa, che però non durava molto. Nel 1939 alzava la sua insegna armatoriale su 14 grandi velieri d’acciaio, 3 navi ausiliarie a motore, 3 piroscafi da carico e 3 motonavi. Gestiva tra l’altro i noti quattroalberi ex germanici “Pamir”, “Passat”, “Penang” e “Pommern” mantenendo le rotte del grano grazie ad una particolare organizzazione in regime di grande economia, osservata anche personalmente, con atterraggi in zone dove i piroscafi non potevano arrivare, con trasbordi assicurati da piccoli navigli locali. Durante la seconda guerra mondiale il “Pamir” e il “Lawhill” venivano requisiti dagli alleati a Wellington e a Capetown, altri suoi velieri venivano affondati. Il “Pamir” tornava in Europa nel 1947 sotto bandiera neozelandese con carico completo di grano e finiva per passare nuovamente sotto bandiera tedesca. Resta­vano ancora due velieri naviganti e tre in disarmo per vetustà.

 

Alla fine del 1938 esisteva ancora una cinquantina di navi a vela, 20 delle quali dell’Erikson, ormai sulla via del disarmo.

 

FRANCIA

 

La moderna flotta francese a vela si sviluppava relativamente tardi grazie alla riforma lungamente invocata delle norme governative finanziarie e doganali, la riorganizzazione e modernizzazione dei cantieri navali di Dunkerque, Nantes, Bordeaux, Saint Nazaire, Le Havre, della Seyne con conseguente entrata in servizio di 300 grandi navi.

Venivano armati a Nantes, dal 1895 al 1905, oltre 150 velieri in prevalenza MEDIUM CLIPPERS, velieri impiegati sulle linee della California, dell’Australia, del Cile dei quali, dopo la guerra, non ne resteranno che una ventina.

 

L’armamento principale portava la bandiera di Antonin Dominique Bordes , che aveva iniziato il suo straordinario curriculum giovanissimo nel 1834 quale agente in Cile di un armatore di Bordeaux, divenendo poi suo socio, finché rientra­va in Francia nel 1867. L’apertura del canale di Suez veniva preconizzato dai più come foriero della morte della navigazione a vela, ma non per Bordes che investiva tutte le sue ricchezze nell’acquisto di velieri da adibire al trasporto del nitrato cileno diventando il primo armatore su piano mondiale. Morto egli nel 1883, l’attività veniva continuata dai suoi tre figli che la incrementavano tanto da armare una flotta di cui facevano parte 98 grandi navi a palo cap-horniere.

Louis Lacroix racconta che Antonin Bordes si trovava, un giorno, insieme al suo capitano Eugène Voisin a bordo del veliero a quattro alberi “Dunkerque”, costruito nel 1888 e considerato un gigante per quell’epoca. L’armatore gli confida­va che intendeva costruire un veliero ancora più grande, con portata di non meno di 6000 tonn., al che il capitano gli faceva presente che ciò non era possibile in quanto si era già giunti al massimo che gli uomini potevano ragionevolmente tenere sotto controllo e manovrare. Bordes non era di questo parere dichiarando che non si doveva far altro che allungare lo scafo e aggiungere un albero in più senza biso­gno di aumentare le misure della pesante attrezzatura velica. Così fu infatti fatto e nasceva il “France” (I°) commissionato nel 1889 ai cantieri inglesi Henderson di Partick presso Glasgow, con scafo in acciaio lungo 114 m. e 6.000 tonn. di portata, con superficie velica di 4.520 m2, con equipaggio di 46 uomini. Una nave così grande da originare un fatto, che a suo tempo sollevò non poco clamore. Nel dicembre del 1897 si trovava nella rada inglese di Dungeness ancorato in attesa della marea, notte oscura e nave con i due fanali prescritti a prua e a poppa. Ecco sopraggiungere in manovra l’incrociatore inglese “Blenheim” che crede di poter passare tra due navi distinte accorgendosi dell’errore solo all’ultimo momento buttando disperatamente il timone tutto alla banda evitando così di tagliare in due il “France” ma procurandogli dei danni di striscio, che l’ammiragliato inglese stentò di riconoscere e rimborsare. Se il veliero fu fortunato in quell’occasione, non lo fu affatto qualche anno dopo quando ad un certo momento non si ebbe più notizie di lui fino al maggio del 1901 quando si veniva a sapere che il trealberi spagnolo “Josepha” lo aveva scorto in Atlantico a 500 miglia dalla costa del Sud America con alzato il segnale richiedente assistenza. A bordo non c’era più nessuno e mancava­no tre delle sei lance di salvataggio. L’equipaggio era stato trovato più tardi e salvato dal veliero germanico “Hèbè” per cui si venne a sapere che il “France” era stato colto da un violento colpo di pàmpero che aveva provocato l’ingavonamento a seguito dello spostamento del carico di carbone che aveva provocato il cedimento di certe paratie tanto che non fu possibile in alcun modo, anche a causa dell’acqua che veniva imbarcata, a salvare la nave che affondava dopo aver vagato senza controllo per 180 miglia. Il rimorchiatore “Hurracan”, mandato sul posto, non ne trovava traccia.

Caratteristica della Casa Bordes era la pitturazione degli scafi, grigia in basso con una fascia superiore bianca scandita da prua a poppa da una fila di false cannoniere nere. Inoltre, se i vapori consumavano carbone, i velieri consumavano vele per cui il vecchio Bordes adottò una soluzione razionale alzando vele della stessa precisa misura su tutti gli alberi e su tutti i suoi velieri in maniera da render­le rapidamente intercambiabili con guadagno di tempo e di spese.

La guerra fu esiziale per la Casa che, all’apogeo della sua attività, contava 46 velieri e 60 capitani di lungo corso. Perdeva per fatto bellico 22 unità. Nel 1919 ne restavano 19 e meno ancora nel 1927 quando veniva abbandonata la rotta del nitrato peruviano. Ripiegava sull’armamento di alcuni vapori ma cessava ogni attività nel 1935, donando al Museo della Marina di Parigi i magnifici modelli che avevano ornato gli uffici della compagnia.

 

Batteva il mare, nel 1913, un secondo “France” varato dai Cantieri della Gironda di Bordeaux su progetto dei noti costruttori Prestant, Leblond, Leroux e Heuzeg per conto della Società Anonima delle Navi Miste, attrezzato con quanto di meglio si trovava all’epoca. Capace di un carico di oltre 8000 tonn., lungo 126 m. con oltre 7 m. di bordo libero, ed altrettanti di pescaggio, si presentava come vogliono i Francesi il veliero più grande mai costruito. Lo scafo era munito di doppio fondo continuo con zavorra liquida, compartimentazione stagna, 6.350 m2 di velatura (poco meno della superficie di un campo di calcio) ripartita su 5 alberi in 20 vele quadre e 12 vele latine manovrabili con verricelli, due motori diesel da 900 HP e due eliche, cella frigorifera, illuminazione elettrica, radio e riscaldamento centrale. La società armatrice aveva pensato, con questo, all’imbarco crocieristico di 25 passeggeri per i quali erano state apprestate e reclamizzate a centro nave delle sistemazioni di lusso con trattamento da grande albergo, con biblioteca, infermeria e salone centrale in cui si trovava anche un pianoforte. Concetti non poco arrischiati essendo ormai giunta alla fine l’epoca dei velieri d’altura. Il “Fran­ce II°” faceva comunque il suo onorato servizio fino in Pacifico basato specialmente sul trasporto del nickel della Nuova Caledonia ma trovando anche carichi nelle Americhe del Sud e del Nord, con traversate degne di nota, anche durante la guerra quando subiva poco graditi incontri con navi germaniche alle quali riusciva fortunosamente a sfuggire, ma con problemi ai motori, tanto che questi a fine guerra venivano sbarcati per decisione dell’ armatore, la Compagnia Francese di Marina e Commercio, che lo aveva rilevato nel 1916. In attesa d’imbarcare un carico di nickel caledoniano, il veliero veniva sorpreso da calme piatte in balìa delle correnti quando alzatosi il mare nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1922 , un’ondata abnorme lo portava sulla scogliera a fior d’acqua di Coia a 60 miglia da Noumèa dove, tallonato dalle onde, rimase sbandato lanciando il segnale di soccorso, che veniva captato da un cargo inglese parecchio distante per cui si diresse sul posto una goletta americana. Nel frattempo, approfittando di un periodo di calma, il capitano aveva potuto imbarcare gli uomini sulle lance di salvataggio lasciando lo scafo pericolante. L’Australian Salvage Co inviava un potente rimorchiatore che stimava il salvataggio possibile ma l’armatore non intendeva sottostare a spese in un momento di crollo dei noli, con le navi che si vendevano a basso prezzo, per cui decideva l’abbandono del “France II°”, che veniva venduto come relitto per 300.000 franchi, dopo aver ricuperato la velatura, la radio e tutto quello che era asportabile, che veniva spedito a Bordeaux. Un capriccio del vento aveva causato una perdita che non sarebbe avvenuta se i motori si fossero trovati ancora a bordo.

 

GERMANIA

 

La vela è stata tenuta dai Tedeschi in gran conto quale plasmatrice di caratte­re e fornitrice di cognizioni utili anche alla marina moderna sicché molti degli armatori di velieri hanno procurato di distinguersi nella cura delle attrezzature e nella disciplina della gestione come elemento distintivo di bandiera tra le flotte che battevano il mare, con scelta oculata di navi dimesse inglesi (e alcune anche italia­ne) e navi di costruzione nazionale. Armamenti principali le Case Laeisz, Rh vom 1896, Knohr e Burchardt, Rickmers, Vinnen, Schluter e Mack.

Verso il 1880 si costruivano a Flensburg alcuni velieri in ferro ma il primato passava presto ad Amburgo e Brema, con 97 e rispettivamente 41 unità.

La Casa M.Laeisz di Amburgo, la principale della marina velica tedesca, prendeva l’avvio nel1874 con un piccolo veliero, si ingrandiva rapidamente tanto che nel 1878 contava già 38 velieri di legno ed alcuni in ferro, che portavano nomi che iniziavano tutti, per sua tradizione, con la lettera P (si dice che con p iniziava una parola che M.Laeisz usava intercalare nel suo parlare). Seguivano successiva­mente 42 unità moderne tra le quali il grande “Potosi”, cinquealberi del 1895, che, grazie ad una accurata organizzazione, effettuavano un numero di viaggi maggiore rispetto alla media, come tre viaggi all’anno per il guano cileno invece di due. Il primato nautico e commerciale era tenuto dal “Preussen” del 1902, grande nave di 5 alberi a vele quadre con 5562 m2, varato dal cantiere Tekleborg, che gareggiava con il “France II°” quale la più grande delle unità veliere mai costruite, dislocante a pieno carico 11.150 tonn, con 58 uomini d’equipaggio, del che se n’era interessato lo stesso imperatore Guglielmo II, noto shiplover. Unità poco fortunata come del resto molti dei velieri, speronato da un piroscafo nel 1910 e finito in costa nei pressi di Dover con perdita totale. La Casa allineava nel complesso anche 11 velieri a 4 alberi, 5 a 3 alberi e  2 brigantini a palo. Si facevano un nome il “Pamir” del 1905, e il “Passat” del 1911. Il “Pamir” veniva venduto nel 1931 all’Erikson , insieme a quasi tutte le unità che ebbero sorti diverse e non molto fortunate. Insieme al “Passat” superava indenne la seconda guerra mondiale, sorpresi in Oceania e sequestrati entrambi dal governo neozelandese per essere restituiti poi agli eredi Erikson che li vendettero a demolitori belgi. Venivano però salvati dai Tedeschi per essere impiegati in Atlantico come navi commerciali scuola. Si costitu­iva a tal fine, con il concorso di numerosi armatori, la Fondazione Pamir - Passat che nel 1953 li affidava alla gestione della Società Zerssen di Lubecca . La sera del 21 settembre 1957, veniva captato l’S.O.S. del “Pamir”, che segnalava la sua posizione a 600 miglia dalle Azzorre investito da un uragano di estrema violenza, disalberato e sbandato di 45°per scorrimento del carico d’orzo imbarcato in America. Si trovava in navigazione da Buenos Aires ad Amburgo con 86 uomini tra i quali 54 allievi. Accorrevano in soccorso navi ed aerei che trovavano soltanto una lancia di salvataggio con 5 superstiti e 5 morti, e tre giorni dopo un altro superstite in una imbarcazione semisommersa. Il naufragio sollevava molto scalpore nell’opinione pubblica, che reclamava la fine delle navi scuola a vela appoggiata in ciò dalla stampa, che richiamava i naufragi di altri 4 velieri avvenuti tra il 1928 e il 1952. Finiva male anche il “Potosi” passato sotto bandiera cilena col nome di “Flora”, perduto nell’ Atlantico Meridionale , nel 1926, a seguito di un incendio (del salnitro imbarcato?). Va rilevato che la Casa Laeisz non ha lamentato perdite per naufragio in costa incorrendo invece in diversi incidenti anche gravi per collisioni dovendosi concludere che in questi casi e negli altri casi in generale i velieri sono stati navi difficili da condurre e controllare.

La Casa M.M.Rickmers di Bremerhaven, trasportava per lo più il riso dell’Estremo Oriente passando raramente per il Capo Horn. Per accelerare i percorsi, nel 1891, muniva il veliero “Maria Rickmers” di due macchine a vapore a triplice espansione con due eliche a passo variabile, ciminiera e trombe a vento da piroscafo che spiccavano a poppavia tra gli alberi, ma senza ottenere l’esito sperato. Nel viaggio di ritorno, la nave si perdeva nel Mar della Sonda senza dare più notizia.

Bisognava sostituirla con un’altra unità e, in attesa di poter valutare le presta­zioni del “Potosi” di Laeisz, acquistava due quattroalberi inglesi. Poi, nel 1906, la Casa ordinava un cinquealberi di grande tonnellaggio, il “R.C.Rickmers” anche questo con propulsione ausiliaria, ma questa volta munendolo di due motori, con buone prestazioni ma non da record. Nel 1914 l’unità veniva catturata a Bristol e impiegata nel Nord Atlantico sotto bandiera inglese col nome di “Neath” finché veniva affondato nella Manica da un sommergibile tedesco.

Il trealberi a vele quadre “Rickmer Rickmers” di 1800 tonn., varato nel 1896 a Bremerhaven, veniva impiegato in viaggi tra il Portogallo e l’Estremo Oriente fino al 1912. L’anno dopo, ribattezzato “Max,” veniva assegnato al trasporto del nitrato peruviano. Sequestrato in Portogallo nel 1916, lo troviamo adibito a trasporti di materiale bellico col nome di “Flores” per essere infine convertito nel 1924, dopo un periodo di disarmo, in nave scuola col nome di “Sagres” (I°, dal 1931 munita di due motori Diesel). Nel 1961, si trovava ancorato nel Tago col nome di “Santo Andrè” e con funzione similare, interveniva l’Associazione dei Grandi Velieri di Amburgo, che intavolava trattative col governo portoghese per la restituzione dell’unità al fine di farne un museo galleggiante offrendo in cambio una moderna goletta, l’”Anne Linde”, come nave scuola per 15-20 cadetti. L’operazione andava a buon fine e il veliero, sottoposto a fedeli lavori di ripristino, è tornato dopo tanti anni in patria, a ricordare il tempo che fu.

La Casa Vinnen di Amburgo affrontava la ripresa dopo il 1918 avendo ancora fiducia nella vela e adottando alcuni cinquealberi di robusta costruzione muniti di una particolare attrezzatura velica a randa con vele di gabbia alternate, ma senza ottenere grandi risultati. Uno di questi velieri passava sotto bandiera italiana (v. nave scuola “Patria”, 1932).

Restano ancora il quattro alberi “Padua”, passato come nave scuola alla marina sovietica col nome “Kruzenshtern”, il “Falls of Clyde”, il “Moshulu”, oltre alle navi scuola militari, come l’italiana “Amerigo Vespucci”, che per le loro caratteristi­che fanno capitolo a sé.

 

COMMIATO

 

Si è fatto cenno alle rotte del guano e del salnitro, principale attività degli ultimi velieri che arrivavano alle semideserte coste occidentali dell’America Latina, sostando talora numerosi e a lungo nei posti di caricamento di Coquimba, Taltal, Antofagasta, Mejillones, Iquique, Pisagua. Si è fatto cenno anche alle tradizioni e ai riti osservati dagli equipaggi con grande partecipazione degli uomini di tutte le bandiere in una comunanza ultranazionale, trasversale, che è degna di essere richiamata quale manifestazione di reciproco considerazione e rispetto. Quando una nave, completato finalmente il carico, stava per tornare in patria dopo una campagna durata uno o due anni, tutti facevano festa.

Ecco come il capitano Mario Taddei, imbarcato allora sul trealberi “Saturnina Fanny”, ricorda l’evento con l’immedesimazione di chi ha vissuto quei momenti.

“Pronti a partire? No, quasi pronti. Insomma, al punto di fare gli hurra! Questi hurrà dati e presi, dati dalla nave che parte; dati, una ad una, a tutte quelle che restano, e restituiti singolarmente da queste, secondo una rigida formula tradizionale, anche se non ancora scritta in alcun protocollo.”

(Viene preparata intanto una curiosa luminaria formata da due pennoni legati in croce con quattro fanali, due bianchi e due rossi)

“Nel silenzio, nella tenebra, nella placida serenità della notte tropicale, sul porto che gode la sua pace oscura scroscia improvviso lo squillo bronzeo della nostra campana… La campana tace. Chi dà la voce è John, il norvegino. Lui sa l’inglese meglio degli altri… tutti lo capiscono. John dà la voce perché tutti diano ad un tempo lo strappone sul cavo che tiene i quattro fanali in croce: Un uomo solo con quattro bracciate li porterebbe facilmente a segno. Lì sono venti uomini che ritmano le strappate simboliche, tutti insieme, ripetendo in coro il ritornello come dovessero issare una gabbia, e ci mettono mezz’ora. È il rito”

“Il grido gutturale di John scandisce dei versetti vuoti di lirica… ma i suoi versetti sono pieni di significato… I quattro fanali toccano lo strallo di trinchet­to… È l’ora dell’addio da gridarsi a gran voce. È dalla dritta che si comincia… La campana squilla a distesa per qualche istante… Una voce grida alla nave più vicina, l’ “Almendral” francese:

— Three cheers to the “Almendral”!

e la gente in coro:

— Hip, hip, hurrà! Hip, hip, hurrà! Hip, hip, hurrà!

“Silenzio.

“Risponde la campana dell’ “Almendral”, ed altre voci rispondono nella tenebra lo stesso triplice saluto.

“Un altro Hip, hip, hurrà! da parte della “Saturnina Fanny”

“Segue poi, nella notte ormai alta, l’appello e il saluto marinaro attraverso lo spazio, nella rada immensa. Sul castello di prora i nomi si succedono, sono ripetu­ti, a memoria, con sicurezza assoluta… Rispondono tutti. Hanno risposto tutti. Precisi, impeccabili. Grave sarebbe il non rispondere. Non si è mai dato questo caso… La grande croce con i quattro fanali rossi e bianchi viene ammainata lentamente… La campana squilla di nuovo. Lungamente. Quando tace, da ogni nave, dalle più vicine sino a quelle ancorate negli angoli più remoti della rada, è un rispondere sonante e simultaneo di altre quaranta campane di prora. Gettano nello spazio i timbri più diversi di bronzi fusi nei cento cantieri d’Europa…

“Danno un addio e un augurio concorde alla nave in partenza… Infine il silenzio ritorna con le ultime eco lontane dalle rupi della costa”.

 


NOTA BIBLIOGRAFICA

 

La letteratura storica, memorialistica e di evasione o di intrattenimento è tanto ricca da non poter rientrare in una nota bibliografica riguardante un lavoro compendioso e ristretto come il presente che rispecchia quanto pubblicato solo da 10 scrittori. Men che meno la letteratura tecnica.

Si citano gli inglesi Alan Villiers, Francis Chichester, W.H.S.Jones, Robert L. Stevenson; gli americani Fred. B. Duncan, Richard H. Dana Jr., Herman  Melville; i francesi Armand Hayet, Louis Lacroix; il tedesco Felix von Luckner; gli italiani Tomaso Gropallo, Mario Taddei, Flavio Serafini, Claudio Ressmann, Vittorio G. Rossi. Quasi tutti hanno vissuto e navigato sui velieri d’alto mare raccogliendo documentazioni di prima mano.

Vanno ricordati anche gli scrittori Jack London e Joseph Conrad (il polacco naturalizzato inglese Konrad Kozeniowski) che ha navigato anche su velieri italiani.

Per quanto riguarda le navi scuola, vedi i quaderni AMA N° 57/93 “Navi scuola a vela nella Marina italiana dal 1863 ad oggi. Militari e mercantili” di Piero Comuzzi, e N° 42/87 “La nave scuola “Beethoven” (1913-1914)” di Aldo Cherini.

Notabile ed splendidamente illustrato il lavoro di Italo Ottonello “Le vecchie canzoni dei giorni dei velieri — Alla ricerca delle grandi tradizioni di vita e cultura del mare”, Supplemento alla Rivista Marittima 11/2011

 

 

 

NOTE

 

1)  L’”East India Company” perdeva il monopolio del the nel 1833 e prendeva l’avvio un rinnovo che interessava anche il vettore navale. La risposta cantieristica inglese non era inizialmente molto felice con unità non molto veloci, dette FREGATE  DI  BLACKWALL dal cantiere Green e Wigram che le costruiva, caratterizzate da un notevole slancio di prua, ma il cantiere di Alexander Hull e Son di Aberdeen (Scozia) non appariva impreparato varando unità, gli ABERDEEN CLIPPER, via via migliorate riguadagnando il tempo perduto, con tonnellaggi crescenti.

 

2)   Le costruzioni in ferro non incontrarono inizialmente molto credito non esistendo ancora prodotti siderurgici pienamente affidabili. Ebbe più successo la costruzione degli scafi composita, o mista, brevettata nel 1850 da John Jordan di Liverpool. Maggiore la robustezza, ma maggiori anche i costi e i danni provocati nelle strutture metalliche dalle correnti galvaniche

 

3)   Nati dalle necessità della guerra del Nord America contro gli Inglesi, con doti di velocità e stabilità di avanguardia, forme di scafo assai stellate, venivano adottati stabilmente crescendo di dimensioni. Si può considerare come  antesignano l’inglese  “Falcon” costruito nel 1824 a Wootton Bridge (Isola di Wight) da uno dei progettisti più reputati, con una prua che mostrava ancora una traccia di serpa. Ma era l’americano John William Griffits a definirne  il disegno e l’impiego col “Rainbow” di 750 tonn. commissionato nel 1845 al cantiere Smith e Dimon di Nuova York con eliminazione della serpa e sostituzione della forma di poppa, non più piena.

Il successo era immediato, pur con l’inconveniente di legnami non di prima qualità e non ben stagionati (a differenza delle costruzioni inglesi). Emergeva il progettista Donald Mac Kay, autore di velieri detentori di primati, come il “Lightning” (1853). Il boom americano aveva però breve durata con la crisi che portava nel 1857 alla guerra civile tra gli stati del Nord e del Sud.

Dopo il 1850 si dedicavano alla costruzione dei clipper tutti i migliori cantieri inglesi, Alexander Stephen di Kelvinhaught, Beniamin Nicholson sul fiume Annan, George Cox sul Tamigi, con progettisti quali John e William Pile, William Rennie.

 

4)   Col termine “packet” (traducibile in postale) si intendeva  il clipper impiegato per il trasporto (non esclusivo) dei passeggeri tra i porti dell’Europa e delle Americhe in classi di cabina e di ponte, questa assai spartana. La gestione era generalmente di appannaggio delle società americane “Black Ball Line”, “Slawllow Tail Line” e “Red Cross Line”. Era molto noto per le sue traversate primato il veliero “Dreadnought” di 1400 tonn.(1853) degli armatori Morgan Cutting Ogden. Andava perduto nel 1869 al Capo Horn non a causa di una delle tante tempeste della zona ma per la improvvisa caduta del vento che lo lasciava in balìa delle correnti che lo portavano contro le rocce della costa.

 

5)   La scoperta dell’oro australiano e la forte corrente immigratoria attiravano l’interesse degli armatori che dirottavano i clipper del the oltre ai velieri armati allo scopo, primo dei quali l’”Eagle” del 1853. Il più noto degli armatori era James Baines della “British Black Ball Line” (da non confondere con la “Black Ball Line” americana) che metteva in linea  86 velieri tra i quali il “Marco Polo”, seguito dalla “White Star Line” di Thomas H.Ismay e la “Red Cross Line” dei fratelli Fernie con un altro veliero molto noto, il “Torrens”. Nei viaggi di ritorno veniva caricata la lana, che veniva compressa con martinetti a vite, tanto che il “Mermerus” riusciva ad imbarcare 10.000 balle per un valore di 132.000 sterline. Fenomeno tipicamente inglese.

 

6)   Il “Saturnina Fanny”, di 1594 tonn., faceva coppia con l’“Australia”. Uno dei migliori clipper a tre alberi, costruito nel 1891 nel cantiere Odero di Sestri Ponente su progetto dell’ing. Fabio Garelli e dell’architetto Tappani per l’armatore Giuseppe Bacigalupi di Chiavari. Proveniente da Rosario per Genova, giunto al largo di Barcellona, veniva affondato da un sommergibile tedesco il 22 maggio 1916.